Totò: sono un uomo di mondo, ho fatto tre anni di militare a… Livorno
A cinquant’anni dalla scomparsa del grande comico, ecco la storia livornese di Antonio De Curtis: qui nacque la celebre frase “siamo uomini o caporali?”
di Alessandro Guarducci
17 aprile 2017
Livorno. Il 15 aprile di cinquant’anni fa se ne andava Totò ma l’enorme patrimonio che ci ha lasciato fatto di film, riviste teatrali, apparizioni televisive, poesie, canzoni, gag e modi di dire lo ha di fatto reso immortale. Sempre applaudito e apprezzato dal grande pubblico, al quale il più grande dei nostri attori comici ha regalato tante risate, è stato finalmente celebrato anche dalla critica che non era stata benevola nei suoi riguardi quando era in vita. Ora tutti riconoscono la sua grandezza e tante città, a cominciare dalla sua amatissima Napoli, hanno organizzato eventi in occasione di questo cinquantesimo anniversario della scomparsa del principe della risata.
Tante città, ma tra queste non c’è Livorno. E che c’entra Livorno con Totò, si domanderanno i nostri lettori. C’entra, eccome se c’entra. Proprio a Livorno, infatti, Antonio De Curtis (quando ancora non aveva assunto il titolo nobiliare di Antonio Griffo Focas Flavio Angelo Ducas Comneno Porfirogenito Gagliardi de Curtis di Bisanzio) ha vissuto una delle più importanti esperienze della sua vita, che ha inciso indelebilmente anche la sua luminosa carriera.
Per scoprirlo, cominciamo con una domanda: dove ha fatto il soldato Totò?
Facile, direte voi: a Cuneo. E invece no. Non si sa perché Totò abbia inventato il celebre tormentone “Ho fatto tre anni di militare a Cuneo”, si sa invece che il giovane De Curtis ha trascorso gran parte dei tre anni di leva a Pisa, a Siena e soprattutto a Livorno. E proprio all’ombra della Fortezza Vecchia è nata una frase diventata poi celebre e ancora oggi utilizzata nel linguaggio comune: “Siamo uomini o caporali? ”. Il tutto a causa di un detestatissimo graduato che gli rese la vita difficile proprio durante il militare a Livorno. Non si tratta una semplice battuta, non di un modo di dire o di una esclamazione spontanea — di quelle che l’attore napoletano ha dispensato a piene mani nell’arco della sua carriera — ma della sintesi di una profonda analisi del genere umano classificato in due categorie, un autentico metro di giudizio per misurare la statura morale degli uomini.
Insomma il Totò-pensiero, che poi ha dato origine all’omonimo film (con un magistrale Paolo Stoppa nella parte del caporale) è nato a Livorno.
A raccontare come andarono le cose, con dovizia di dettagli, è lo stesso Totò nella prefazione al libro intitolato appunto “Siamo uomini o caporali”.
«Ero poco più che un ragazzo — scrive Totò — quando mi decisi ad avanzare la domanda di volontariato al Distretto militare di Napoli. Mi assegnarono al 22° reggimento di stanza a Pisa. Poiché avevo imparato che, tra gli esercizi militari, il meno penoso e il più semplice era quello di marcare visita, divenni, modestamente, uno specialista in materia. I miei superiori non ritennero di valutare con il mio stesso metro le continue visite all’infermeria e, appena si presentò l’occasione, mi trasferirono al CLXXXII battaglione di fanteria destinato in Francia, presso un reparto di marocchini. Durante il viaggio di trasferimento, e precisamente alla stazione di Alessandria, accusai un tale repertorio di malesseri da dover essere ricoverato d’urgenza all’ospedale militare del luogo». Alcuni studiosi di Totò scrivono che simulò un attacco epilettico.
«Il convoglio con gli altri soldati continuò il suo viaggio ed io, appena dimesso dall’ospedale – scrive Totò – fui inviato all’87° reggimento di fanteria (Brigata Friuli, di stanza a Siena ndr). Però le mie peregrinazioni non dovevano considerarsi ultimate. Il destino aveva deciso di farmi fare la conoscenza diretta dei più noti reggimenti italiani. Infatti, di lì a poco, si liberarono di me, lavativo per eccellenza, e fui assegnato all’88° reggimento di stanza a Livorno» .
A quanto pare nella città labronica Totò si trovò a suo agio, visto che riuscì a portare a termine il servizio militare. E proprio qui, appunto, ci fu l’incontro che segnò la sua vita. «Fu in questo glorioso reggimento — continua nello scritto autobiografico — che ebbi come graduato il famigerato caporale, il caporale per antonomasia, il caporale a vita, uno di quelli cioè che ti fanno odiare, per un numero imprecisato di generazioni, la vita e il regolamento militari! Egli era stato promosso caporale per assoluta mancanza di graduati disponibili, pur essendo quasi analfabeta. Nella vita militare, il conoscere determinati mestieri (barbiere, meccanico, autista, elettrotecnico, ecc.) presto o tardi consente di uscire dall’anonimato e di godere di un certo stato di privilegio, evitando così tutte le fatiche, le corvèes e i turni di guardia. Turni di guardia e corvèes costituiscono l’ossessione dei giovani i quali attendono con ansia la libera uscita per godersi tranquillamente — e, se possibile, con una bella figliola, diciamo così, indigena — le poche ore di evasione dall’atmosfera della caserma. A quei tempi mi piaceva la vita brillante del giovane di buona famiglia senza pensieri, sospiravo il suono della tromba che dava il via alla libera uscita e rendendomi simpatico ai superiori con le mie macchiette teatrali tentavo di conquistarmi l’esenzione dal servizi di guardia e di corvées che coincidono, puntualmente, con il permesso serale» .
Insomma, Totò a Livorno si trovava bene — lo fa capire chiaramente — e avrebbe voluto spassarsela un po’ di più. Ma… «C’era un “ma” — aggiunge nello scritto autobiografico — che sbarrava le mie intenzionie i miei propositi; ed era incarnato da quello strano tipo di caporale ignorante e presuntuoso il quale, animato da un’irragionevole idiosincrasia nei confronti dei “militar soldati” abusando del suo grado, riusciva a privarci della sospirata breve libertà. Per quel che mi concerne, posso assicurarvi che mi riservava i servizi più umili e più bassi. E questo non era che il principio, l’inizio. A quel caporale tutto quello che facevo io non piaceva. La vita militare non mi si era presentata sotto un aspetto eccessivamente gradevole, dato anche il mio temperamento insofferente; tuttavia, per evitare le sue continue rappresaglie, assunsi un contegno disciplinato, eseguendo senza discutere i suoi ordini e subendo con rassegnazione le sue osservazioni. Questa mia tattica non ebbe un esito particolarmente felice. Il caporale scambiò la mia passività per debolezza e, forte più del suo grado che dei regolamenti, raddoppiò ingiustamente la dose, rendendomi veramente asfissiante la vita in comune. Durante le punizioni che mi toccava scontare, rimuginavo in me un rancore senza fine nei confronti dei “caporali” , verso coloro cioè che, muniti di un’autorità immeritata e forti di una disciplina che impone ai sottoposti l’obbedienza senza discussione, esercitano i loro meschini poteri. Per me, dare del “caporale” a qualcuno — in quel periodo — equivaleva a classificarlo nella peggiore categoria che si possa immaginare. In caserma mi capitò spesso di dire: Guardiamoci in faccia… Siamo uomini o caporali?».
Fuori della caserma, però, era tutta un’altra cosa. Il giovane De Curtis conobbe una signora che abitava in via De Larderel (quella che va dal Cisternone al Voltone, oggi piazza della Repubblica) e che gli affittò una stanza dove poteva riposarsi un po’ e togliersi la divisa per mettersi degli abiti civili per uscire la sera ed andare a cena o a teatro: c’era insomma spazio per un po’ di divertimento.
Si narra che negli anni successivi, quando era già diventato un noto attore, Totò abbia saputo della morte della signora: da principe generoso qual era, inviò per riconoscenza fiori e un aiuto economico alla famiglia.
«Rientrai nella vita civile con il bagaglio della mia esperienza militare», così Totò conclude il capitolo livornese nella sua autobiografia. E la vendetta contro il caporale si concretizzò nel 1955: la regia del film fu affidata a Camillo Mastrocinque ma Totò, in questo caso, non si limitò al ruolo di attore e collaborò attivamente alla sceneggiatura.
Ma ritornando un passo indietro nella nostra storia, è da ricordare che nel 1921 Totò era ancora a Livorno: al cineteatro Lazzeri cantava la parodia dell’allora famosissima canzone “Vipera”.
Da allora Il legame con Livorno rimase sempre forte e gli aneddoti sono davvero tanti, molti dei quali vennero alla luce nel 1998 quando l’amministrazione comunale livornese decise di ricordare i cento anni della nascita del comico partenopeo con una serie di iniziative che andarono in scena al Teatro delle Commedie e al teatro della Gran Guardia.
Il Totò livornese fu ricordato con un raro filmato del 1957, in cui si vede Totò impazzare alla Gran Guardia con la fanfara dei bersaglieri e con tante battute che per Il Tirreno furono raccolte da Luciano Donzella: dalle supermance (3. 000 lire degli anni Cinquanta) alle maschere della Gran Guardia – “perché signori si nasce, e io lo naqui” – fino all’incredibile pienone di quel 14 e 15 febbraio del 1957 con “A prescindere”, penultimo spettacolo di Totò sul palcoscenico. Quattromila presenze in due serate, il che vuol dire che 600 spettatori rimasero in piedi, con i biglietti volatilizzati all’apertura dei botteghini (costavano 3.000 lire, contro le 300 del cinema in quegli anni) e i bagarini che in piazza Cavallotti li vendevano a 10.000 lire.
Totò si è spesso ricordato di Livorno anche nei suoi film. Per esempio in “ Totò e Cleopatra” quando nel ruolo di Marco Antonio viene circondato da quattro guardie di colore ed esclama: “Perbacco! Io li conosco a questi! Questi sono i “Quattro mori” che stanno a piazza Grande a Livorno”. Un piccolo errore che concediamo al grande Totò: la statua dei Quattro Mori è sempre stata davanti alla Darsena vecchia, in quella che oggi è chiamata piazza Micheli. Nello stesso film, alla regina che gli propone un baccanale all’egiziana, Totò replica così: “Sempre baccanale all’egiziana, mai che mi facessero un tocchettino di baccanale alla livornese” .
Rispondendo poi ad un quiz di Mike Bongiorno, in “ Totò lascia o raddoppia”, il concorrente Totò cita subito dopo San Siro di Milano e le Cascine, l’ippodromo Ardenza (oggi il “Caprilli” è malinconicamente chiuso, altri tempi…) con un perfetto accento livornese. E ancora c’è Totò investigatore privato, sostituitosi ad un cameriere in “ Totò, Vittorio e la Dottoressa” che si rivolge ad un cliente che chiede qualcosa di leggero consigliandogli “un piatto di sugheri alla livornese”.
Probabilmente Totò ha amato Livorno perché in qualche modo lo faceva sentire a casa, nella sua Napoli: due città di mare, due città generose, due città aperte all’accoglienza, due città esagerate nelle manifestazioni di gioia ma anche capaci di ironizzare sui propri difetti. Così, come
scrisse Franco Volpi su “Comune Notizie” nell’aprile 1998, «anche Livorno, nel suo piccolo, può essere paragonata ad una casbah, dove quasi tutto è permesso o, per citare Totò le Mokò, una casbah di tolleranza».
È forse per questo che a Livorno, Totò si sentirà sempre a “casbah”.