Estremamente drammatico fu, tra le mie personali esperienze, il trasporto in elicottero del paracadutista Strambelli, ferito accidentalmente da un commilitone il 28 aprile. Il proiettile gli aveva attraversato il basso addome, devastando orribilmente gli intestini.
Era terribile, voler fare e non sapere che fare, con il dottore che, tra gli ondeggiamenti dell’elicottero, non riusciva a trovare la vena per applicare la flebo e il ferito che, agitandosi nella semi coscienza, si strappava via l’ago.
A un certo punto ebbi l’impressione che fosse morto: freddo in viso, e
senza più respiro, tentai di scuoterlo schiaffeggiandolo, senza ottenere alcuna reazione.
Angosciosa l’attesa presso l’ospedale da campo, mentre dentro la sala operatoria i nostri chirurghi tentavano l’ impossibile per strapparlo alla morte. L’operazione durò dalle 17 alle 02 della notte.
Ogni tanto la porta si schiudeva e all’interrogativo stampato sui nostri volti, il dottore rispondeva con una ben poco promettente scrollata di capo.
Eppure al mattino il ferito si riprese; sembrava proprio che i nostri bravi dottori fossero riusciti a “riprenderlo per i capelli” tanto che venne caricato, il mattino del 30, su un aereo attrezzato e trasferito presso l’ospedale militare del Celio, a Roma, dove invece una maledetta complicazione post operatoria lo portò a morte, il 13 maggio.
Il giorno più tragico, più triste, e più caldo (sia in senso reale che figurato) fu il 2 luglio.
Dopo aver effettuato un rastrellamento alla periferia di Mogadiscio, per le strade vi furono barricate e violente proteste della gente.
Io stesso mi trovai coinvolto in pieno negli scontri.
Il rastrellamento era appena terminato e noi stavamo tornando a Balad, con in testa una AR/76, e dietro una scorta di autoblindo e di M/113. Dalla radio giunse notizia che presso il pastificio erano rimasti bloccati alcuni automezzi e il Comando del 183° Reggimento disponeva pertanto il ritorno sul posto della nostra scorta.
Invertito il senso di marcia, rifeci la strada in senso inverso e di lì a poco mi trovai una barricata di sassi e pneumatici in fiamme che pochi minuti prima non c’era.
Improvvisa, cominciò una tremenda sassaiola ed io diedi l’ordine all’autista di attraversare a tutta velocità la barricata. Non sospettavo che poche decine di metri più in là ce ne fosse una seconda, e un senso di sgomento mi assalì allorché, guardando indietro, mi accorsi che la scorta di mezzi blindati non mi seguiva in quanto era rimasta attardata. Ma fermarsi in quel momento avrebbe significato essere fatti a pezzi dalla folla
inferocita che ci tempestava di sassi.
Avanti perciò, a tutta velocità, oltre la seconda barricata, solo per trovarne una terza. Qui ai sassi cominciavano ad aggiungersi colpi di arma da fuoco. Superata la terza barricata, credevo di essere al sicuro: invece ero semplicemente precipitato nel bei mezzo dei combattimenti.
Per fortuna eravamo presso un check-point, cioè un posto organizzato a difesa, con sacchetti di sabbia dietro i quali ripararsi. Fischiavano pallottole da tutte le parti; ma l’incubo peggiore non era rappresentato tanto dalle mitragliatrici, quanto dai colpi solitari dei cecchini, che potevano arrivare da ogni direzione. Posso assicurare che rimanere per ore nel dubbio che la propria testa sia sotto il mirino di un fucile di qualcuno che non vedi e dal quale perciò non puoi difenderti, non è una sensazione affatto piacevole.
Dopo tre ore e mezzo di combattimento, riuscimmo a sganciarci, portandoci dietro i nostri feriti, ma tre dei nostri compagni di viaggio erano definitivamente scesi dal torpedone della vita: per i poveri Millevoi, Paolicchi e Baccaro, non c’era più nulla da fare.
Alla fine di agosto, dopo otto mesi di ininterrotta permanenza sul suolo africano, salutati da calde manifestazioni di affetto da parte di quelle stesse popolazioni dei villaggi che avevamo bonificato, un aereo decollava dall’aeroporto di Mogadiscio per ricondurci definitivamente in Patria.
Ten.Col. Pasquale Terrieri