Ogni giorno un medico era a loro disposizione, sia in sede, che presso un posto di medicazione esterna che avevamo allestito in tenda.
I malati più gravi venivano ricoverati nelle tende ospedale, dove il nostro personale veniva coadiuvato da infermieri locali, retribuiti con viveri.
Dopo i primi giorni venimmo a sapere che le medicine distribuite ai malati perché le prendessero a casa, venivano da questi rivendute, sì che ci
vedemmo costretti a fare assumere le stesse medicine soltanto sul posto.
Potrebbe apparire strano, al nostro modo di vedere, che la gente potesse acquistare e assumere medicine con tanta disinvoltura, quasi che ogni farmaco fosse buono per ogni tipo di infermità; c’è però da tenere presente che, in prevalenza si trattava di antibiotici, e che questi, sul fisico dei Somali agivano con incredibile efficacia.
Dopo un mese dal nostro arrivo, “adottammo” l’orfanotrofio “Guglielmo Marconi”. Quando giungemmo, esso era ridotto ad un edificio fatiscente, affidato ad un individuo che si dichiarava “direttore” ma che a tutto badava meno che ai bambini. Questi ultimi, poverini, non facevano che aggirarsi come bestiole attorno alla catapecchia, abbandonati a se stessi.
In pochi giorni, riadattammo tutto lo stabile, ed affiancammo a questo direttore alcuni volontari Somali, stipendiati col sistema “cibo per lavoro”. Rimettemmo quindi in sesto una scuola, a Balad, che venne organizzata su quattro classi di 250 scolari complessivi. Anche gli insegnanti vennero stipendiati con lo stesso metodo.
Sia l’orfanotrofio, che la scuola, vennero arredati con suppellettili da noi costruite con legname di ripiego, spesso ricavati dagli imballaggi scartati dagli Americani.
Effettuammo anche la distribuzione di vestiario ai bambini, quel vestiario che la solidarietà mondiale convogliava verso la Somalia. Sulle prime, non riuscimmo però a comprendere come mai, pur avendo fornito loro abiti nuovi e puliti, il giorno dopo ci ritrovavamo davanti gli stessi bambini sempre vestiti allo stesso modo.
Tutto ci apparve chiaro quando ritrovammo gli stessi vestiti sulle bancarelle di Mogadiscio: farabutti e profittatori purtroppo non mancavano.
La gente più buona, più generosa, più riconoscente, era quella dei villaggi, cioè, come sempre, i più poveri. Ogni volta che ci vedevano arrivare facevano di tutto per mostrarci la loro riconoscenza; organizzavano feste e balli, e ci ricambiavano con le povere cose di cui disponevano.
La stessa generosità riscontravamo, quando recandoci a Mogadiscio, effettuavamo soste a Gesira, villaggio di pescatori: in luogo di prodotti agricoli, le loro offerte si manifestavano con le migliori catture della loro pesca, ma lo spirito e la spontaneità dei gesti erano gli stessi.
La divisione in fazioni era sentita solo nelle grandi città; nei villaggi era ignorata, e in essi regnava la più completa armonia: i viveri che noi recavamo loro venivano messi tutti insieme, e tutti ne potevano disporre in pari misura.
Era, questo della generosità, l’aspetto che più sembrava avvicinare le caratteristiche della nostra gente a quella somala: non di rado fui costretto a riprendere aspramente qualcuno dei miei soldati, che regalava loro parte della propria razione viveri, nei momenti in cui non ne avevamo a sufficienza nemmeno per noi.
Il concetto di “bambino”, allorché ci si riferisce al contesto somalo, merita qualche precisazione.
La durezza delle loro condizioni di vita li fa maturare con una rapidità incredibile; a 8-10 anni non è più possibile considerarli bambini, perché a quell’età tè li puoi ritrovare davanti all’improvviso, con un mitra in mano pronti a procacciare, con la violenza, il cibo per la sopravvivenza.
L’ abitudine alla violenza fa sì che si attribuisca scarso valore alla vita umana, comunque certamente inferiore a quello che le diamo noi. Per questo è fuori logica valutare il loro modo di agire sulla base della nostra scala di valori e deve essere fatto uno sforzo per cercare di comprendere o tollerare.
Tra gli aspetti positivi della missione, va incluso il cordiale rapporto di cameratismo che si era instaurato con i contingenti ONU degli altri Paesi. I giornali hanno messo in risalto le discordanze tra la linea statunitense e quella italiana: quasi mai invece hanno parlalo dei valori positivi di questo spirito di collaborazione tra popoli tra loro così diversi. E non sempre
era il rappresentante del paese tecnologicamente più evoluto a venire in soccorso del più debole. Se è vero che noi abbiamo fornito supporto ai Coreani, dal momento del loro sbarco fino alla loro completa sistemazione, è altrettanto vero che noi stessi abbiamo avuto il bisogno del loro aiuto, dotati di un autogrù più potente delle nostre; ed è anche vero che gli stessi Statunitensi ebbero bisogno di ricorrere ai nostri mezzi, allorché una loro trivella di perforazione rimase bloccata a notevole profondità nel terreno.
Con questi contingenti si fraternizzava, specie la sera, al termine del servizio; ci si riuniva al “Roxy bar” (così avevamo ribattezzato il nostro Circolo) e si trascorreva il tempo cantando e comunicandoci, in inglese, le rispettive esperienze.