Ascoltando chi c’era
Non erano stati di buon augurio, né di lusinghiero presagio, i primi giorni trascorsi a Balad, dove eravamo arrivati, via nave, il giorno di Natale del ’92. l’ isteresi iniziale della macchina dei rifornimenti ci fece restare quasi a secco di viveri, tanto che il Capodanno del 1993 venne festeggiato (era il massimo che ci potevamo concedere) con una fetta di panettone e una di anguria.
Nell’ancora incerto compito che ì’Onu ci avrebbe assegnato, e prima di cominciare ad operare a favore della popolazione, pensammo bene di provvedere alla nostra sistemazione. Agli edifici che ci erano stati assegnati quale nostra sede, e che una volta ospitavano l’Accademia Militare della Somalia, era più ciò che mancava che non ciò che era rimasto: restavano in
piedi, in pratica, solo i muri perimetrali. Si trattava di lunghi capannoni a un piano sparsi tra i radi alberi della savana. Attorno, vari appezzamenti di terreno, dai quali i somali ricavavano una sorta di patata dolce poco nutriente, si alternavano a larghe estensioni incolte. In seguito e nel tempo, vennero messe in atto numerose iniziative per rendere meno opprimente la vita al campo, negli intervalli delle varie missioni: c’erano tende con video-giochi e ping-pong; molto diffuso era il calcio balilla. Venne allestito anche un campo di calcetto, nel quale la sera, a fine servizio, vennero disputati accesi tornei interni. L’orario era alquanto pesante. Sveglia, tutti i giorni, alle 5 e 30; un’ ora dopo iniziavano le attività, che si protraevano fino alle 12. Poi, pranzo, un paio d’ore di riposo indispensabili per le temperature torride della parte centrale della giornata, e ripresa alle 15, fino alle 19. Anche per l’effettuazione delle missioni, si cercava di sfruttare le ore più fresche della giornata, con interruzione in quelle più calde. Dopo le 19, niente libera uscita, ovviamente; d’altronde dove sarebbero potuti andare i nostri soldati?
Attorno al campo, un reticolato ininterrotto ed un servizio di sentinelle, garantivano la nostra sicurezza. Solo le frotte di ragazzini somali, agili come gatti, riuscivano a penetrare per venire a rubare i nostri rifiuti. Poiché noi, soprattutto per ragioni igieniche, avevamo preso l’abitudine di bruciare periodicamente questi rifiuti, essi si appostavano nei dintorni del campo, in attesa dell’arrivo dei nostri autocarri, per fare razzia prima che tutto sparisse nel fuoco. Gli stessi rifiuti venivano successivamente ricoperti con riporti di terra. I pericoli più insidiosi, per noi, più che delle armi delle varie bande, provenivano dalla natura. La savana era infestata da serpenti velenosissimi, quali, cobra, e soprattutto mamba “sette passi” (venivano così chiamati perché il loro veleno è così potente che chi viene morso ha appunto il tempo di percorrere sette passi, prima di cadere a terra fulminato).
Ce n ‘erano al campo, al momento del nostro arrivo, poi la nostra presenza li costrinse a sloggiare. C’erano anche quelle che sono sempre state le loro naturali nemiche, le manguste. Purtroppo, contro i nostri stessi desideri, la nostra presenza le allontanò ancor prima dei serpenti. Diffusissimi gli scorpioni, di due specie, i neri e i bianchi. La puntura dei primi, anche se dolorosissima, non è mortale, al contrario di quella dei secondi. La loro presenza ci costringeva ad opportuni accorgimenti, quale quello di controllare bene che non ce ne fossero, dentro il letto, prima di stenderci a dormire. Durante la nostra permanenza, solo un militare venne punto da uno scorpione, per essersi infilato un maglione senza prima controllarne l’interno.
Altro serio pericolo, la malaria, contro la quale effettuavamo tutti una specifica profilassi, a base di pillole di “paludrine” e “clorochina”, che abbiamo continuato ad assumere per diverso tempo anche dopo il nostro rientro in Patria. Erano molto numerosi anche gli animali commestibili, come i facoceri, sorta di cinghiale locale, ai quali davamo la caccia, procurandoci gustosi arrosti. Numerosissimi gli uccelli, molto variopinti.
Il fiume Ucbi Schebeli pullulava di coccodrilli. Un nostro soldato aveva acquistato al mercato un uovo, convinto che fosse di struzzo; si può immaginare la nostra sorpresa quando, alla sua schiusa, ne vide guizzar fuori un coccodrillino.
Tra i primi incarichi a favore della popolazione, il più immediato fu quello di riportare presso i loro villaggi tutti coloro che la fame e la paura dei predoni avevano costretto a riparare verso le città più grandi. Ciò che più ci gratificava, erano le manifestazioni di gioia dei familiari che si riabbracciavano dopo tanto tempo. Sapere di essere stati capaci di poter dare
questi attimi di felicità dava un senso alla nostra presenza, e ci indicava come essa infondesse in quella povera gente un senso di sicurezza.
I nostri compiti si moltiplicarono: si aggiungevano le scorte ai convogli di viveri delle organizzazioni umanitarie e ai funzionari delle stesse, che altrimenti avrebbero dovuto far ricorso, a caro prezzo e con minori garanzie di sicurezza, a quelle delle varie formazioni armate locali.
Molte furono le iniziative di carattere sociale.
L’assistenza sanitaria fu quasi automatica, dal momento che furono gli stessi Somali ad accorrere, fin dai primi giorni. Le affezioni più frequenti erano tubercolosi, malaria, malattie veneree, ma soprattutto piaghe, generate da ferite non disinfettate.