Sinfonia
Ho poca memoria, devo ammetterlo. Ho poca memoria per i nomi e ancor meno per le date. Anzi, per dirla tutta, ho poca memoria in generale. Questo è un fatto. Lo so, può sembrare uno svantaggio e in parte lo è, ma solo in parte. Il lato positivo, perché c’è un lato positivo, è che nella mente rimangono solo le cose più importanti, quelle più emozionanti, quelle che scavano con forza solchi profondi nel carattere, quelle che, nel bene e nel male, riescono a farsi largo fra le altre aggrappandosi saldamente e per sempre alla tua anima.
Diventano una parte importante di te.
Fra le tante che, nonostante gli anni trascorsi e la vita che porta spesso dove non avresti mai pensato di andare, fra le tante, dicevo, ce ne è una che mi torna spesso alla mente.
Un ricordo vivido, pieno ancora di emozioni, di timori, di soddisfazioni e di immagini dai contorni netti, mai sfiorati dalla polvere del tempo.
Una nascita, credo proprio di poterla definire così.
A quel tempo, e parlo di molti anni fa, ero un tenente non più alle prime armi del quinto battaglione paracadutisti e la mia compagnia, la quindicesima, mi aveva dislocato al comando dove ricoprivo l’incarico di ufficiale addetto all’addestramento e alle informazioni. Il lavoro mi piaceva e le cose andavano bene. Un giorno fui convocato dal mio comandante di compagnia che mi fece una domanda che mi sorprese un po’.
“Accetteresti di essere trasferito a Pisa?” All’epoca l’unico reparto paracadutista presente nella città della torre pendente era la Smipar che peraltro non dipendeva dalla Brigata.
Per farla breve la proposta consisteva nel trasferirsi a Pisa e mettere le basi per la costituzione di un nuovo reparto: il battaglione logistico paracadutisti Folgore.
La cosa da una parte non mancava di impensierirmi, dall’altra affrontare la sfida mi stimolava molto. Accettai rinunciando ai due giorni di tempo che mi erano stati concessi per rifletterci.
Fu così che in una mattina di fine estate, in compagnia di un maresciallo emiliano doc, di un sergente prossimo alla promozione e di un conduttore di automezzi, percorremmo la statale Aurelia alla volta della caserma Artale.
Devo confessare che l’impatto con quella realtà non fu dei migliori. Il reggimento di artiglieria pesante che occupava la caserma era in fase di smobilitazione e quel vago senso di abbandono era palpabile, presente nell’aria come l’odore di salmastro nelle giornate di libeccio.
Iniziarono così quei giorni, giorni indimenticabili, appunto.
Il mio reparto era così piccolo che, la sera, ci ritrovavamo nell’ufficio che ci era stato concesso e facevamo quelle poche pianificazioni che le circostanze permettevano. I giorni passavano in un lampo e a sera, durante il rientro a Livorno, scambiavamo poche parole e ognuno di noi nascondeva dentro di sé un senso di scoramento che, per fortuna, svaniva all’alba del giorno successivo.
Col tempo, mentre le fila del reggimento di artiglieria andavano assottigliandosi, iniziarono le prime assegnazioni di uomini e mezzi e la diffidenza, che aveva caratterizzato da ambo le parti la convivenza all’Artale, lasciò gradatamente il posto alla collaborazione.
Spesso la sera mi affacciavo alla finestra del primo piano della palazzina comando e guardavo il piazzale interno con i pochi mezzi parcheggiati, le chiome delle palme che ondeggiavano al vento e la bandiera che sventolava ignara delle nostre pene.
Come ho già detto, non ricordo i nomi ma il soprannome del primo conduttore di automezzi lo ricordo ancora. Come avrei potuto scordarlo.
Lo chiamavamo Fittipaldi in un ardito confronto con il noto, e certo più abile, pilota di formula uno.
Il nostro Fittipaldi riusciva a fare incidenti con una frequenza quasi giornaliera ed ogni incidente costava rapporti, descrizione dei fatti e dei luoghi e l’immancabile quanto vana ramanzina finale che il nostro eroe del volante ascoltava con espressione contrita e sguardo perso nell’infinito.
Pian pano organizzammo la mensa, i circoli, le camerate, l’officina dando un primo abbozzo al reparto ed infine venne il giorno nel quale le redini di quello che sarebbe diventato un vero cavallo di razza passarono ad un comandante che a pieno titolo avrebbe guidato il battaglione verso un nuovo futuro.
Di lui, strano a dirsi, ricordo bene il nome: Ivo Scarpa, ma ricordo ancor di più le molte giornate trascorse allo stesso tavolo, chini sulle carte che disegnavano i futuri assetti del reparto, ricordo i suoi modi gentili, la sua determinazione e il suo straordinario senso dell’humor.
A volte, quando per una ragione o per l’altra le cose non andavano per il verso giusto, scacciava il malumore e la delusione con un sorriso o una battuta.
“Siamo come i forti di Forte Coraggio. Siamo circondati ma venderemo cara la pelle” amava dire, non senza quella sottile ironia che era uno dei suoi tratti distintivi.
Nel giro di pochi mesi il reparto assunse la sua fisionomia e divenne operativo.
Insomma era nato qualcosa di nuovo, qualcosa che avevo visto alzarsi e muovere i primi passi.
Ormai sono trascorsi molti anni, forse troppi per ricordare ogni nome, ogni episodio, ogni delusione e ogni gioia ma mi basta passare davanti a quel portone di via Roma perché una cascata di sensazioni si affollino nel cuore e nella mente.
Ho la certezza di aver dato tutto ciò che potevo per la riuscita di quel progetto ma sono altrettanto certo di aver avuto in cambio molto di più. Ho imparato a dare importanza a piccoli gesti, ho capito la straordinaria importanza della paura e del sacrificio, ho conosciuto persone meravigliose, ragazzi che portano nel cuore una forza straordinaria.
Nel 2015, in occasione del quarantesimo anno dalla costituzione del battaglione, sono tornato sui miei passi, lì dove tutto era cominciato.
Ho visto uomini e donne inquadrate nei reparti prendere parte a una manifestazione che ricordava un evento di quaranta anni prima che loro, troppo giovani, non avevano vissuto e del quale, forse, avevano solo sentito parlare.
Ma non è in quei minuti suggestivi della cerimonia ufficiale che ho riconosciuto qualcosa del mio passato, è stato quando, sciolte le righe, quei ragazzi e quelle ragazze si sono mescolate e confuse con gli ospiti. Alcuni ridevano e scherzavano con gli amici altri si scambiavano commenti, ma in tutti e in ognuno di loro, nei loro sguardi, ho visto qualcosa che ho riconosciuto.
C’era insomma un filo rosso, anzi amaranto, che li univa, che faceva di loro, donne e uomini, un unico grande organismo, un insieme compatto, eterogeneo ma affiatato, come una grande orchestra dove ognuno suona uno strumento diverso ma con uno scopo comune: dare vita alla musica.
Lo so, non voglio certo attribuirmi il merito di questo, altri dopo di me sono i veri artefici ma, in fondo al cuore, mi riservo una piccola vanità, mi vedo come una figura in disparte intento ad accordare gli strumenti e penso che in fondo anch’io ho contribuito, anche se in piccola parte, alla buona riuscita del concerto.
Franco Filiberto