Da: Fabio Fabiani
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20 aprile 1990. Mi reco alla stazione ferroviaria accompagnato da mio padre e mio fratello. Mia madre l’ho già salutata a casa. Mio fratello, ufficiale dell’Esercito, nel momento dell’abbraccio mi dice: “Fatti onore!” Salgo sul treno senza voltarmi. Durante il viaggio scorrono nella mia mente tanti pensieri, ma saranno quelle due parole che continueranno a echeggiare incessantemente, anche per tutto il periodo della naja, come un monito da osservare.
Così cominciò la più entusiasmante e indimenticabile esperienza della mia vita. Una parentesi che sarebbe durata dodici mesi, durante la quale avrei avuto la fortuna di vivere le gioie e le paure di un parà.
A Pisa ci aspettano i famigerati caporali istruttori paracadutisti che a uno a uno, a mano a mano che arriviamo dalle varie parti d’Italia, ci inquadrano nel piazzale antistante la stazione ferroviaria allineati e coperti. Una volta raccolte tutte le giovani reclute, saliamo sugli ACM e dopo circa venti minuti, raggiungiamo la SMIPAR.
Mentre varchiamo l’ingresso della porta carraia, sento dentro di me crescere sempre di più l’emozione dovuta alla felicità e l’orgoglio di entrare a far parte di un corpo d’élite: i paracadutisti. Sono entusiasta di svolgere il servizio di leva come uno di loro. Dopo la scelta fatta durante la visita di leva, finalmente è arrivato il momento di poter indossare il basco amaranto.
Giunti all’interno della caserma tra le grida degli istruttori e il nostro imbarazzo generale, ci sistemano nelle camerate delle compagnie allievi. Vengo assegnato alla sedicesima compagnia Grifi. Le brande sono a castello e per ogni camerata ve ne sono quaranta tutte allineate a poca distanza l’una dall’altra, senza armadi né scarpiere. I nostri bagagli non devono assolutamente toccare il terreno. Sulle pareti vi è una mensola di metallo sulla quale va sistemato lo zaino militare.
Il verbo “camminare” non esiste, nemmeno all’interno della camerata. Si deve sempre correre durante lo svolgimento delle operazioni di caserma e se non c’è spazio davanti a te, allora devi correre sul posto. Il saluto militare è dovuto a tutti, nessuno escluso. Alla fine per non sbagliarmi saluto pure i civili che lavorano in caserma.
Oggi ricordo con affetto il mio primo “camerata” di branda: un ragazzo di Udine simpaticissimo, che dormiva sotto di me ed era sempre in ritardo nel fare il cubo. Con lo stesso affetto ricordo i miei caporali istruttori che mi insegnarono a marciare, a presentarmi ai superiori, a cantare le canzoni dei paracadutisti, ad avere le prime sembianze di un soldato.
Il primo mese di vita militare passa in un attimo. Si comincia la mattina a correre prima dell’alza bandiera, si prosegue marciando durante la giornata e si finisce cantando la sera nella camerate in attesa del contrappello. Il rancio, nonostante il poco tempo a disposizione, è buono e abbondante. Ci sono anche la birra e la Coca Cola alla spina.
Il contrappello è il momento conclusivo della giornata. Tutto deve essere in ordine e perfetto per la presentazione della forza. Guai se il pavimento non è lucido, guai se le brande non sono in ordine, guai se non siamo tutti allineati e coperti con un atteggiamento a dir poco marziale. L’errore di uno equivale all’errore di tutti.
Il giuramento segna la fine del primo periodo, quello durante il quale vieni chiamato “aspirante allievo paracadutista”. Vengono ad assistere alla cerimonia i miei genitori e gli amici più stretti. E’ un grande giorno. Prima dell’inizio della cerimonia, i plotoni schierati nelle rispettive compagnie, cantano le canzoni dei parà. Il nome Folgore viene urlato a squarciagola da una parte all’altra della SMIPAR. Il terzo scaglione ’90 sta preparandosi per il suo giuramento. Finita la cerimonia sono senza voce, ma felicissimo: ho giurato fedeltà alla Patria.
Il corso palestra segna la fase successiva: quella da “allievo paracadutista”. Quattro settimane di intensa attività finalizzata alla preparazione psico-fisica e professionale del militare per il superamento dell’ostacolo principale: il lancio con il paracadute. Non tutti risultano idonei. La selezione è dura. Il maresciallo istruttore non fa sconti a nessuno.
Il lancio simulato dalla torre è la prova del nove per vedere se assumi la posizione corretta per il vero lancio. Dopo solo quattro lanci raggiungo la perfezione. Di solito ne servono una decina. Descrivere cosa provo la prima volta e cosa si prova quando ci si lancia da un aereo non è semplice.
E’ un misto di emozioni e di sentimenti, una scarica di adrenalina pura che raggiunge il suo apice quando si è davanti la porta in attesa della luce verde. Una volta usciti non si può più tornare indietro, sei da solo con te stesso ad affrontare il salto nel vuoto. In lontananza senti ancora il rumore dell’aereo che si allontana, mentre la fune di vincolo che va in trazione, apre la sacca porta-paracadute. Lo shock di apertura significa che tutto sta procedendo bene, ma non è finita.
Solo dopo aver controllato la calotta e le funicelle del paracadute, inizi a tranquillizzarti e a godere del silenzio e del vuoto totale intorno a te. E’ la parte più bella ed emozionante del lancio. Ti senti vicino a Dio e vorresti quasi parlarci. La discesa non dura molto. Giunto a terra torni alla realtà. Raccogli il paracadute e ti prepari per la pattuglia. Ti senti più forte di prima, più immortale di prima.
Con il terzo lancio e il contestuale conseguimento del brevetto, finisce anche questa fase. Ci sono i primi addii. Veniamo assegnati ai diversi reparti della brigata, dislocati nella Toscana, dove ad attenderci ci sono i famigerati nonni. Per me, che voglio fare il guerriero e l’assaltatore, la destinazione è una grande delusione. Mi mandano al battaglione logistico, incarico 60/A, perché diplomato e iscritto all’Università.
Sembra che mi sia cascato il mondo addosso. Non riesco ad accettare l’idea di fare lo scrivano in ufficio invece che gli sbalzi e gli assalti di squadra. Una volta rinuncio alla licenza già firmata pur di partecipare all’operazione militare più importante della brigata che si tiene una volta l’anno: la Mangusta.
Il battaglione logistico non mi offre l’opportunità di fare il Rambo, ma posso fare molti più lanci che in altri reparti e non è cosa da poco. Il mio anziano, poi, non ha tanta voglia di lanciarsi, cosi che oltre ai miei lanci mi faccio anche i suoi, tant’è che alla fine il mio libretto vanta diciassette lanci.
Tra una pompata e l’altra i mesi passano velocemente e con i miei “fratelli di naja” stringo delle grandi amicizie. In mezzo a noi puoi trovare di tutto: dal laureato all’analfabeta, dal povero al benestante, dal drogato al ragazzo serio. E’ una grande palestra di vita, nella quale giorno dopo giorno imparo qualcosa che mi aiuta a crescere.
Diventato anche io “nonno”, arriva il mio allievo: un giovane toscano intimorito che in mezzo a quei leoni sembra una pecorella smarrita. Il fatto che non abbia conseguito nemmeno il brevetto è un motivo in più per essere oggetto di scherno. Però nessuno lo può toccare o farlo pompare senza il mio assenso. E’ un bravo ragazzo e ho deciso di proteggerlo a tutti i costi. Non l’ho mai fatto pompare, solo rimboccarmi le coperte dopo il contrappello.
Alla fine il giorno del congedo arriva anche per me. Il silenzio fuori ordinanza segna l’ultima notte da trascorrere in caserma. Il giorno dopo si torna a casa. Sono triste e felice nello stesso tempo, consapevole di essere maturato durante questi mesi, di avere fortificato il mio carattere e di essere pronto ad affrontare la vita come un vero paracadutista.
Oggi sono un Luogotenente dei Carabinieri, paracadutista “FUORI CORPO”. Faccio servizio in una unità specializzata antidroga e ho all’attivo sette missioni all’estero. Ma non ho provato mai più quelle emozioni.
Fabio Fabiani
brevetto n. 138282